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Se Taiwan rimane senza difese – Junko Terao

by Nouvelles

2025-03-12 14:10:00

Nel nuovo ordine mondiale che Donald Trump sta disegnando muovendosi come un tornado e lasciando dietro di sé macerie e instabilità (questa l’immagine particolarmente efficace che trovate sulla nuova copertina di Internazionale), gli alleati degli Stati Uniti in Asia si chiedono cosa aspettarsi.

L’atteggiamento di Trump nei loro confronti nel migliore dei casi è di diffidenza, quando non apertamente ostile: già dai tempi del suo primo mandato il presidente statunitense sostiene che Giappone e Corea del Sud, i due sodali più stretti di Washington nella regione, dovrebbero pagare di più per stare sotto il suo ombrello difensivo.

Il 7 marzo, per esempio, Trump ha messo in discussione il trattato di sicurezza che da 65 anni impegna gli Stati Uniti a intervenire in difesa del Giappone, qualora ne avesse bisogno, in cambio di una sua cospicua presenza militare nell’arcipelago (che non serve solo a garantire la sua sicurezza del paese asiatico, ma è un elemento cruciale per la strategia statunitense sulla scena internazionale).

L’impegno stabilito dal trattato, dice Trump, non è reciproco. Poco dopo l’insediamento del presidente alla Casa Bianca, il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba si era affrettato ad andare a incontrarlo, adulandolo e mostrandosi deferente. Una tattica che con uno come Trump dovrebbe aiutare, ma che in realtà non sempre paga. E infatti.

Tra gli alleati, tutti comprensibilmente preoccupati perché la guerra dei dazi non li risparmierà, qualcuno rischia anche di più. Per Taiwan, che Pechino minaccia di annettere anche con la forza, se necessario, il sostegno statunitense è fondamentale per la sua stessa esistenza, e Trump sta usando questa dipendenza come leva per ottenere vantaggi nel campo dei semiconduttori, di cui l’isola è il principale produttore. Il presidente ha prima accusato Taipei di aver “rubato” al suo paese l’industria dei chip e poi ha minacciato d’imporre dazi del 100 per cento sui semiconduttori prodotti sull’isola.

La settimana scorsa la Tsmc, il gigante del settore che produce gran parte dei chip più avanzati in circolazione, ha annunciato un investimento da cento miliardi di dollari in quattro anni negli Stati Uniti. La mossa, criticata dall’opposizione taiwanese, che da tempo accusa i governi progressisti di voler svendere l’industria dei semiconduttori privando l’isola di una garanzia fondamentale contro le minacce cinesi, è un chiaro tentativo di rabbonire Trump anche se, come racconta l’articolo di Brian Hioe che pubblichiamo nell’ultimo numero di Internazionale, l’annuncio del piano non basta: Taipei deve farlo percepire al presidente statunitense come una vittoria per Washington.

Oltre ai microchip, l’altro elemento che finora ha fatto da scudo a Taiwan chiamando gli Stati Uniti a impegnarsi per difenderla, è il fatto di essere una democrazia solida all’avanguardia sul piano dei diritti civili. Ma, dato che ora alla Casa Bianca c’è un leader che ha espunto la difesa dei valori democratici dalla politica estera del suo paese, improvvisamente Taipei si ritrova senza una protezione sicura.

Per di più l’apertura di Trump alla Russia sulla guerra in Ucraina fa pensare che il presidente dealmaker sia disposto a fare accordi con chiunque, anche con la Cina, e Taiwan teme legittimamente di diventare merce di scambio.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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